Il calcio è stato parte della mia vita da quando ho compiuto sette anni. Allo stadio ci ero andato con mio padre e mio zio, due appassionati che vivevano il calcio in modo opposto, uno compassato, ex arbitro, quasi disinteressato, l’altro sanguigno, tifoso e quindi affatto sportivo.
Ricordo quel giorno, gli spalti con i gradoni in cemento duro, i cappelli degli spettatori, le radioline con un solo auricolare, tutti a seguire i risultati per la immancabile schedina del totocalcio e la partita. Tutti si accaldavano, gridavano imprecavano ed io piccolo, affascinato e curioso, osservavo l’arbitro, che aveva la canotta nera così come i guardalinee, le panchine di plastica, il pallone ad esagoni bianchi e neri , le maglie di lana pesante, il portiere, il nostro portiere con una casacca giallo canarino con i pantaloncini blu. Ricordo che vincemmo 1-0 segno il n° 7 , giocava ala destra fece una conversione verso il centro e dal limite tiro rasoterra a fil di palo.
Da quel giorno ho saltato poche partite in casa, qualche influenza, solo la febbre mi teneva lontano dallo stadio, fila h n°98, quel 98 nero in un ovale bianco che contrassegnava il mio posto a sedere. Non c’erano seggiolini, dovevi stare attento se qualche chewingum era attaccata sul tuo posto, addio pantaloni e il rischio ancora peggiore, addio partita successiva. La passione si trasformava in gioco quando nel pomeriggio di sabato , con i compagni di scuola ci si vedeva per qualche partita, si arriva a dieci e sul nove a nove “chi segna vince”. Tutti erano attaccanti, chi si sentiva Riva, chi Boninsegna, chi Mazzola e chi Rivera, poi se qualcuno faceva tutto da solo e non passava la palla, immancabile arrivava, “ma chi ti senti ..Pelè?”
A me piaceva fare il portiere, non che non sapessi giocare in avanti, ma in porta mi sentivo unico, utile, indispensabile. Così nei cortili, o nelle piazze quando c’era il solito torneo venivo subito chiamato dagli amici, “Mauro, giochi siamo fra noi ed giù i soliti nomi”. Non c’erano scuole calcio e l’unico modo per imparare, era vedere, e rivedere in TV o allo stadio come paravano i grandi. A me piaceva Cudicini Fabio da Trieste191 cm per 81 kg, con quelle manone e la sua divisa che lo facevano sembrare imbattibile, lo chiamavano il “ragno nero” per via della calzamaglia nera che amava indossare e per il fatto di essere longilineo con arti filiformi; anche il soprannome "Pennellone", attribuitogli dai tifosi romanisti, faceva riferimento alla sua statura.
Certo non era il vero “Ragno nero”, quello era solo Lev Yashin, ma non lo avevo mai visto parare il russo che è tuttora l’unico portiere ad aver vinto il Pallone d’oro.